mercoledì 29 dicembre 2010

Bentornata Irene

Guardandosi nello specchio poteva scorgere il riflesso della Luna abbracciare le sue spalle e illuminare il seno ancora fresco di doccia, la finestra faceva penetrare quel fascio come una volata di fumo bianco, denso, imprendibile. Sentì la spugna bagnarsi di un confortevole calore che si aggrappava fin dalle gambe sempre più su, sul petto, sulle spalle, dietro la nuca. Si sentì protetta ma esposta nello stesso tempo. Si sentì un vuoto nella pancia quando vide quella cicatrice che correva dal cuore, paese delle emozioni fino a tra le gambe, provincia della passione…
Quel pomeriggio in reparto sentiva un insana paura, una di quelle che ti fa vibrare come una corda suonata col polpastrello in una delle sue tante amate serate jazz. Solo che stavolta non erano le intermittenze del cuore, era quel muscolo così magnifico a vibrare fin troppo.
Pensava a quel sindaco che voleva togliere le cure mediche ai clandestini, pensava alla sua nuova pipa marrone tramonto poggiata lì, sulla scrivania a parlare con la sua chitarra, pensava a quel quadro, pensava… Da quando la sottile lama metallica incise la sua candida pelle bianca non sapeva se erano passati più sogni che momenti, più emozioni che pensieri, più voglia di vivere e di suonare per nascondersi dietro le note. Svegliandosi ricordava soltanto la buffa bandana che avvolgeva i capelli di quel chirurgo che l’aveva avuta in cura tra una prigione e una clinica, sin da bambina, sin da quando ancora la vita la leggeva nei fumetti e non la viveva ancora, sin da quando la morte, da mostro disneyano di “Fantasia” si materializzò nel corpo del papà… Non voleva essere operata di cuore, non voleva essere malata di cuore, ma qualcuno scelse al suo posto, perché troppo piccola pensava sempre; Non di età, ma di esistenza, di importanza nel suo passato, in quei giorni che nemmeno ricorda perché forse giorni non erano; Li pensava di aver sbagliato tutto, ma non poteva fare niente, se non aggrapparsi al ricordo che tutto era ormai….Un ricordo.
Lo specchio incominciava a schiarirsi e a lasciare solo gli aloni biancastri del troppo calore passato, c’era freddo e i capelli ancora umidi, si coprì quel brutto ricordo e completò di asciugarsi.
Nel salone c’erano già papà e quel suonatore “incallosito” che suonava nella stanza, di fronte al caminetto e con la sua compagna di sempre a sei corde, l’accolsero con un abbraccio, tutti e due, l’uno con il calore del suo maglione di lana grossa, l’altro con il calore dell’atmosfera. Si sorrisero e iniziarono a parlare di tutto, di come aveva saputo che viveva lì, di come aveva scoperto che quella nube bianca che correva verso il soffitto fosse la sua preferita e di come era riuscito ad accendere un fuoco che si spegneva sempre troppe volte e riscaldava quel legno che seppur troppo duro lasciava che il suo contenuto facesse godere chi aveva avuto la fortuna di abbracciarlo in una mano.
E poi? Nemmeno una stella che riuscisse a non far precipitare tutto. Un ricordo più vero del vero… Tornò a sciacquarsi la faccia con l’acqua gelida e si mise sul divano, aprì la tovaglia e fece disperdere tutto il calore che l’avvolgeva, accese la vecchia radio sul bracciolo del divano e inizio a cercare qualcosa che trasmettesse le stesse emozioni di quel vecchio checantava con quattro dita; Poi si alzò e andò in camera cercando qualcosa da mettersi addosso, trovò un completino scuro dietro e trasparente davanti lo indossò mentre sentiva gli scoppiettii del caminetto. Pensa. Si diceva pensa. Cos’è quello che hai vissuto in un giorno, in quel giorno con una vestaglia bianca e più niente addosso? Purtroppo era quello che aveva dentro, ecco cos’era, al di là di tutto il resto lo amava per com’era e per come la faceva vivere seppur maledicendo la stessa vita.
La mezzanotte scoccò insieme ai botti di fine anno.
Sentiva gli schiamazzi dei vicini e i cin-cin che dicevano di cancellare i brutti ricordi dell’anno passato, sentiva la malinconia abbracciarla e consolarla, sentiva lui accarezzarle i capelli mentre parlava di una certa Curva Sud di chissà quale stadio, sentiva se stessa vibrare di lacrime e affannarsi per qualcosa che non voleva avere, una malattia che seppur le permetteva di vivere, la uccideva ogni momento che passava, impedendole persino il desidero in passato tanto abbracciato e accarezzato, quello di morire.
Con la pipa in bocca abbracciò la sua compagna e si mise a suonare quella melodia che poco fa aveva ascoltato alla radiolina mezza sfasciata, purtroppo sapeva che quella sera nessuno poteva dormire con lei, nessuno poteva farle compagnia come quando sua madre lavorava, eppure suonava ugualmente, per il piacere di farlo, per il piacere di suonare e non di ascoltare; Credeva che quei momenti, seppur tristi, erano indimenticabili e un giorno magari li avrebbe rimpianti. Con quel MI basso che picchiava contro le pareti si rese conto che in camera non c’era papà. C’era soltanto lui, il chitarrista compagno di ricordi e di vita, forse unico compagno che aveva e forse, anzi sicuramente, unico amico di lui che aveva deciso di farla finita di fronte al ritratto di una ragazza, vecchia compagna di scuola, che le ricordava Irene… Sua figlia. Che le ricordava che lei viveva grazie a colui che aveva combattuto assieme a lei le case di morte chiamate ospedali, dove si vive e si muore quasi come una in catena di montaggio. Chissà cosa pensava mentre annodava la corda al lampadario si chiese, e lì, qualcuno le rispose veramente, con una nota talmente acuta da sfondare le pareti di un’angoscia assieme alla paura di vivere, talmente affilata da incidere non la pelle come in Ospedale, ma il cuore come solo una canzone sa fare. E questa volta erano le intermittenze del cuore a farle capire che non era sola, che nonostante tutto lui le aveva voluto bene, e quell’atto era per mettere fine ad una vita per continuarla dentro un’altra, eternamente, fino a quando lei avrebbe voluto. E da quel momento lei iniziava a volerlo sentire dentro se, come solo un padre non più uomo sapeva fare, come solo un amico, una nota, una musica, un amore, una vita che avanza riusciva a fare.
Era felice nonostante tutto, piangeva per un ricordo più forte della morte di chiunque, persino della morte di un sogno, quello di riabbracciarlo.
Mise in bocca la sua pipa caricandola con quello che rimaneva di un vecchio sigaro adagiato nel posacenere; La sentiva parlare dentro se, sentiva il fumo acro e duro scalfire la tristezza di un uomo poco amato in passato e con cui aveva appena trascorso la serata. L’ultima serata di quell’anno per tutti e due. Mise le labbra nel bicchiere che non aveva ma sentiva attraverso la parete, bevve tutto d’un sorso, lacrime comprese, come vide fare al suo vecchio. Spense tutto, tirò l’ultima boccata regalata dalla sua nuova amica e alzo la polvere che copriva quel portafoto con due facce.
Quella di Lui e la sua, di Irene. Bentornata diceva.

2 commenti:

  1. Bravissimo!!! Non ti smentisci mai!! Voglio leggere il seguito!!! :)

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  2. Aspettavo da tempo un altro racconto...da brividi, come sempre.
    Buon anno Compagno!

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