martedì 23 marzo 2010

Irene

Gli occhi di quel quadro lo attraversavano mostrando tutta la pietà immaginabile. Lo scrutavano per vederlo attraversare con un solo balzo il confine tra l'io e il non io; Ma quello sguardo castano sapeva, sapeva perchè, lui, stava per prepararsi a balzare?
Sospirò.
Quella sera era andata come sempre, una discussione con gli amici, i compagni a venire che avevano preso il posto di quelli ormai "stanchi", anzi, più che stanchi, abituati ad occuparsi di lui solo per un po' di tempo al mese. Erano venuti e lo avevano accerchiato come quasi ogni sera, insieme ai loro congiuntivi slabbrati dall'alcool e ai loro saluti calorosi sputati da delle labbra rosse di invidia.
"Invidia" pensò stavolta.
Labbra rosse di invidia. Rosse di un qualcosa che non si può dire, rosse perchè nascoste nel fosso del campo minato dell'amicizia. Nel prato fiorito della solitudine... Dicevano:
"Ciao! E' stato un piacere" oppure "Non bere ancora! Che ti fa male!"
E poi ti prendevano la chitarra, il tuo volgare pezzo di legno in truciolato, e si mettevano a cantare "quei tizi", i tuoi cantori preferiti, i tuoi unici amici, anzi, i tuoi probabili unici amici. Si, probabili come la speranza che c'era ancora, fioca come un filo di sole nel lago della vita, di trovare persone e non gente. Ed ecco uno strano sentimento uscire fuori: la tristezza, la disperazione più profonda. Le lacrime nel sentire quelle bocche cantare quelle Voci. E giù la testa a chiudersi e a darci sotto con l'alcool. E pensare che erano state quelle note a farli incontrare: lui, lei, loro. Ora, come per magia, erano quelle voci invece, ad avergli fatto capire tutto, molto più di quanto c'era da capire. Alla fine li aveva trovati, li aveva rimossi dai loro stretti nascondigli e a nessuno, a nessuno avrebbe detto quanto erano grandi queste tane.
Insopportabile tristezza...
L'angusto pensiero di avere buttato tutto al vento, tutta una vita al vento. Aveva avuto un rimpianto, che, ironia della sorte, era quello di avere creduto di vivere accanto a degli esseri umani. Aveva sempre tirato la fune per tentare di vedere chi ci fosse all'altra estremità e finalmente incominciava a capire. Erano loro, quei codardi, quelle persone che, come nel gioco del "Tirare la corda", avevano tirato lui oltre lo scotch ormai appiccicato sotto le sue scarpe. Era, senza accorgersene, già passato nel campo avversario, e aveva perso. Aveva avuto il rimpianto di averli conosciuti. Il rimpianto che lo spingeva ad amare qualcuno veramente, non carnalmente nè tanto meno eroticamente. Solamente, ora, voleva chiedere a loro come si chiamavano e che nome davano alle loro chitarre e, come uno scherzo del destino, gli avevano risposto, finalmente delle parole. Ma erano ubriachi quando lo fecero.
Anche poco fa si pose nuovamente la stessa domanda, e loro li risposero come da rituale; Ora lui stava rimpiangendo la sua bontà... Ora era giunto al momento della decisione.
"No" disse
"Non può essere, loro sono su questo divano, e guarda! Ah Ah! Lui è dietro la mia chitarra! Guarda come suona... Bellissimo! Sei sbronzo ma suoni da Dio, da uomo libero da tutto, anche dall'alcool, come fai? E tu? Non eri... no... sei qua..."
No, non era solo. Loro, quelle Voci, erano li con lui, ed erano riusciti a cacciare quelle maledette bocche. Nemmeno questa volta lo avevano abbandonato nel suo ennesimo viaggio verso l'infinito rosso, solo che stavolta, finalmente, iniziava a vederne il fondo; il sottomarino mondo di un velo chiamato: vita. Quelle Voci erano insieme a lui anche in quella notte profonda che imprigionava quelle tante ipocrisie mascherate di persone, che si incontrano nella vita.
Sentì uno spaventoso assolo, un assolo di chitarra elettrica accompagnata da un arpeggio che immaginava fosse eseguito da delle dita tozze, con le unghia annerite e con l'alito di una Voce che cantava e bagnava quei fili di Nylon tesi tra due estremità. Era bellissimo, quella voce era affascinante, era calda, era lenta, era tranquilla... Pensò che era bello per lui sapere che anche in quel momento loro erano con lui. Lo stavano abbracciando, lo stavano guardando e stavano suonando e cantando solamente per lui. Con lui.
Credette che era bello vedere lo sguardo di quel quadro insieme alle voci della sua unica speranza, amalgamati tutti insieme dall'alcool di una bottiglia di whiskey; Pensò che gli volevano bene e sentiva che gli chiedevano come si chiamasse la sua chitarra:
"Non ha il nome" disse ridendo e mischiando il whiskey con le lacrime. Loro lo abbracciarono. La speranza penetrò quel lago dove prima veniva respinta...
Lo sgabello si scostò di colpo. Il lampadario si drizzò e spense le sue lampade a forma di candela. La corda si tese bruscamente; lui sorrise piangendo.

(dedicato a Fabrizio)

2 commenti:

  1. Complimenti per la scrittura scorrevole e la descrizione del chitarrista. Ciao :)

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  2. Ciao, ti ringrazio per tutti i commenti, come vedrai ho modificato qualcosina in quest'ultimo pezzo, che in teoria, in quel progetto che ho in mente, dovrebbe essere l'inizio dell'intera storia. Per ora son felice che piaccia già cosi com'è. Ti ringrazio tantissimo! ;)

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