lunedì 14 settembre 2009

Riciclo dei cantautori?

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Milano - Di certo non se l’aspettava nessuno. Perciò non è passato inosservato l’annuncio che Francesco De Gregori sarà ospite in una delle prossime puntate di X Factor. Sul web, in tutta quella infinita sequela di siti e blog che commentano le notizie, c’è chi si è stupito, chi ha nostalgicamente sacramentato, chi invece si è rassegnato all’inevitabile ticchiettìo del tempo. E senza dubbio De Gregori, il Principe da quarant’anni maestro di parole austere e poetiche, che sale sul palco dove sono sbocciate Giusy Ferreri o Noemi è il segno più clamoroso di una nuova fase dei cantautori. Chiamiamola, se volete, riflusso. Oppure diaspora. Oppure rifondazione. I cantautori come per decenni li ha riconosciuti l’immaginario collettivo, quel plotone di artisti vocati alle canzoni e compatti anche nei loro orientamenti sociali e comportamentali (la politica è motore dell’arte, abbasso la tv, niente paillettes), non esistono più. Sono rimasti nel passato, dove peraltro ancora molti li cercano. Loro ormai sono diversi e basta darci un’occhiata per accorgersene. Altre strade, altre ispirazioni, addirittura conversioni. Di De Gregori s’è detto: continua il suo pellegrinaggio concertistico alla Bob Dylan, cui spesso è avvicinato, suonando ovunque, anche nelle piazze periferiche e in contesti una volta impensabili (lo conferma il titolo di qualche giorno fa della Gazzetta di Parma: «Il re dei salumi “vuole” il principe dei cantautori» riferito ai concerti del festival del Prosciutto). Produce, De Gregori, album di vendite alterne, appesi a metriche anche sublimi eppure sempre meno citate.

E Francesco Guccini, quello che l’anno scorso, come anche Antonello Venditti, ha benedetto X Factor? Scrittore talentuoso da oltre vent’anni, si alterna tra i pugni che si chiudono quando ai concerti canta quel famoso «trionfi la giustizia proletaria!» della Locomotiva e le interviste in cui spiega che comprò l’eskimo solo perché proteggeva dal freddo, facendo inorridire anche Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere («oggi c’è il tradimento dei cantautori»). L’impressione è che, finito il propellente ideologico politico che giocoforza aveva carburato una gioiosa macchina da guerra discografica e opinionistica, ciascuno dei cantautori storici ora segua il proprio percorso solitario e puro che talvolta li espone a compromessi da saltimbanco (il famoso «non ho mai letto Marx e Marcuse» sempre di Guccini) ma spesso li porta fino a frontiere egregie e nuovamente godibili. Prendiamo Lucio Dalla, per esempio. Onnivoro e inarrestabile, forse il più lucido di tutti i cantautori in questa fase, mescola la passione per il jazz con l’opera lirica; non si fa scrupoli a far comparsate tv di ogni tipo con la leggerezza necessaria; diventa regista della Tosca di cui modifica pure una parte del libretto; porta in scena L’Opera del mendicante di John Gay. E scrive addirittura quell’inno ufficiale degli italiani alle Olimpiadi di Pechino che già nel titolo, Un uomo solo può vincere il mondo, è già una piccola, magari inconsapevole, negazione di quei versi che in Com’è profondo il mare dipingevano esattamente il collettivismo del 1977: «Certo chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche / il pensiero è come l'oceano / non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare». Poi c’è chi, come Enzo Jannacci, negli anni è passato da un nichilismo poetico e utopistico e qualche volta gozzoviglioso, all’innamoramento vendicativo per Gesù «che oggi ci prenderebbe a sberle». Ben più inquieto Roberto Vecchioni, ultimamente più fertile come scrittore che come autore di canzoni. La forsennata cavalcata della sua Samarcanda del 1977 non ha solo dato il titolo a un programma di Santoro ma era anche un elogio quasi stoico dell’inevitabilità del destino (Seneca diceva: il fato guida chi lo segue, trascina chi recalcitra). Facile intuire a quale destino politico alludesse. Oggi Vecchioni ha scoperto la preghiera, si è avvicinato a Dio, riconosce addirittura l’onestà della destra e dice che «il sei politico è stato un orrore». Roba che se l’avesse detta trent’anni figurarsi dove finiva il consenso degli intellettuali di cui ha sempre goduto. Come passa il tempo. Insomma, quella dei cantautori è una rinascita impensabile ma inevitabile che forse trova le sue ragioni in quel verso di Giorgio Gaber, coraggioso perché doloroso e persino implacabile: «La mia generazione ha perso».

In parte con l'articolo sono d'accordo, in parte no.
Ognuno è libero di fare quello che vuole nella sua vita e nessuno deve giudicarlo, ma è anche vero che come dice il """"Giornalista"""" se queste cose fossero state fatte tempo fa, sarebbero crollati subito quegli ideali portati avanti dai cantastorie; Guccini e l'eskimo, il giornalista raggelò... Qualche altra minchiata da aggiungere? Non era stato lo stesso Francesco a dirlo nella sua canzone per cosa usava l'Eskimo?
De Gregori a xFactor, bene è un cantante, va dove piglia soldi è la morale di oggi purtroppo non ci si astiene più a fare queste cose per questioni di ideali e politica.
Vecchioni e Dio, non vedo cosa c'è di male... Riconosce l'onesta della destra, beh, chi ha mai detto che la destra sia più onesta della sinistra? Qual'è il target di onesta oggi?
Articolo tanto inutile quanto ignorante, quando alla fine cita Giorgio Gaber, intanto quella frase non si riferiva per nulla alla gente di cui parla l'articolo, ma ai polli d'allevamento... Ma poi Gaber non cantava: "Un'idea, un concetto, un'idea finchè resta un'idea è soltanto un'astrazione...."?

si fermò un attimo per suggerire a Dio
di continuare a farsi i fatti suoi
e scappò via con la paura di arrugginire
Il giornale di ieri lo dà morto arrugginito,
i becchini ne raccolgono spesso
fra la gente che si lascia piovere addosso.


Saluti

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